Si è capito poi chi era la vecchia bretone?
Che il Centro di gravità permanente fosse un concetto di Gurdjieff, lo sapevamo tutti. Chi sia Gurdjieff magari si potrebbe approfondire, ma il problema è un altro: capire se, dietro quell’apparentemente insensato namedropping di cui è fatta la canzone, ci sia un qualche significato.
Ma figuriamoci: solo parole a caso! Così ci ha sempre raccontato Battiato medesimo.
Già.
Però noi nella fervida community del complottismo poetico la pensiamo diversamente.
Cominciamo dalla vecchia bretone: certo, un’anziana donna di quella regione nel nordovest della Francia. La quale però è vestita alla cinese, chissà perché, con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù. Si dà il caso che anche i versi successivi siano dedicati alla Cina. Coincidenze? Io non credo.
È certamente un’allegoria: quella vecchia signora altro non è che la vecchia Europa, è chiaro. Fra l’altro il popolo dei bretoni si prestava bene a unire simbolicamente la Francia (perché si trovano in Francia) e la Gran Bretagna (da cui prendono il nome, essendone originari). L’abbigliamento esotico della donna allude dunque alle conquiste coloniali in Asia iniziate con la guerra dell’oppio (1839-1842). Conquiste che in realtà andarono nei due sensi: l’Occidente si prendeva l’Oriente con i cannoni, mentre l’Oriente si preparava a invadere l’Occidente con tutto il resto. Cultura, filosofia, religione, design, profumi e scale pentatoniche.
Questa interpretazione è confermata dalla successiva comparsa di capitani coraggiosi sulle navi che in quello stesso periodo attraversavano gli oceani; e proprio “Capitani coraggiosi” è il titolo di un romanzo (1897) del britannico Rudyard Kipling, anch’egli molto legato alla presenza coloniale del suo paese in Asia e soprattutto in India. Il cenno successivo, quello ai furbi contrabbandieri macedoni, si riferisce invece a viaggiatori di terra sulla via della Seta: potrebbero rappresentare più in generale i commercianti balcanici, notoriamente scaltri.
La strofa finisce con il racconto di gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming. Qui non c’è niente di simbolico, è una storia precisa: quella del marchigiano Matteo Ricci (1552-1610), un gesuita appunto, missionario in Oriente. Indovinate dove?
Ma in Cina, ovviamente! Infatti fu accolto a Pechino nel gennaio 1601 alla corte di Wanli (1563-1620), uno degli ultimi imperatori della dinastia dei Ming. Infatti non lo ricevettero subito a braccia aperte, né fu facile per Ricci guadagnarsi la fiducia del sovrano. Comunque ci riuscì dopo avere cominciato a vestirsi come un bonzo, cioè un monaco tibetano; anche se il suo scopo era poter diffondere il Cristianesimo in quelle terre. Il gesuita era inoltre un matematico, e introdusse nella cultura cinese i primi elementi della geometria euclidea.
Ora non venga a dirci il Maestro che si trattava di parole buttate lì, così a caso, per divagare: voleva depistarci eh? Ma a noi non la si fa!
Anche perché ci sarebbe ancora molto da aggiungere sulla seconda parte del pezzo, io però ora devo andare, è ora della moxa e poi un bel tè kombucha non ce lo leva nessuno.
Buona domenica.