Ufficiale e gentiluomo - il Vipassana
Del Vipassana non bisognerebbe parlare; non perché ci sia qualche regola che lo impedisce, quanto perché è inutile. Lo so perché prima di fare il Vipassana me ne avevano parlato in tanti, anzi era tipo da 5 anni che ne sentivo parlare, eppure: quando mi sono trovato a farlo, mi sono accorto che tutto questo parlarne era valso zero. Nulla di ciò che ne sapevo, o pensavo di saperne, aveva a che fare con la realtà della cosa. Come si dice con quella tremenda parola ormai ubiqua, il Vipassana è esperienziale: quindi puoi capire cos’è soltanto dopo averlo, ehm, esperito.
Dunque è un argomento perfetto per la newsletter. E magari chissà, dopo averne scritto qui mi libererò di questa ossessione, smettendo di rompere le scatole sull’argomento a tutte le persone che incontro. Smetterò di raccontare che il Vipassana è una pratica esercitata in alcune comunità sparse per il mondo, e che in Italia ce n’è una per esempio, ma io sono andato a farlo in Romania seguendo un consiglio particolarmente surreale. Che la pratica consiste in corsi di 10 giorni, durante i quali tutti i partecipanti hanno la consegna del silenzio (o “nobile silenzio”, come viene chiamato qui). Che non ha senso chiedersi se ci siano punizioni per il mancato rispetto di questa o delle altre regole durante il corso: ogni regola infatti è concepita come un’opportunità, del resto molto difficile da sperimentare altrove (e come dargli torto). Se decidi di trasgredire, ad esempio provando a parlare con il tuo compagno di stanza che in ogni caso NON ti risponderà, dovresti piuttosto chiederti cosa cavolo sei andato a fare lì. La punizione sta nel fatto che ti sei perso questa unica opportunità che avevi di chiudere il becco per 10 giorni. Devo inoltre specificare che “silenzio” è inteso in un’accezione molto ampia, cioè come totale mancanza di comunicazione: niente parole, niente contatto visivo, niente gesti. Ed è logico: pensa cosa combineremmo noi italiani se ci lasci anche solo usare le mani per comunicare; del resto sapevamo già in teoria che il 90% della comunicazione è fatta di body language, e ora possiamo finalmente esperire anche questo nella pratica. E per quanto riguarda le comunicazioni, diciamo così, virtuali, la prima cosa che fanno questi talebani appena arrivi è requisirti il cellulare, insieme a tutti i dispositivi elettronici in tuo possesso; roba che finisce (assieme a eventuali medicine) in un sacchetto sigillato con il tuo nome sopra. Lo rivedrai alla fine del corso, ciao. Io avevo anche una piccola torcia, quella però me l’hanno lasciata, sia mai che finivo in un fosso di notte mentre cercavo di raggiungere il gabinetto.
Tra le varie altre cose che esperiremo: rigida divisione tra uomini e donne per tutti i 10 giorni, così rispetto a quelle non solo si sta in silenzio, ma non possiamo nemmeno vederle. Che poi, cavolo, si può immaginare niente di più diabolicamente perverso? Il momento peggiore sotto questo aspetto era in sala mensa, quando si mangiava tutti insieme, ovviamente i maschi da una parte, le femmine dall’altra - benvenuti nel Medioevo – e un bel telone a separarci, ma purtroppo il telone non evitava completamente i piccoli tintinnii e rumori vari che venivano da di là (amplificati, ovviamente, dal solito silenzio) e nemmeno qualche lieve trasparenza a seconda dell’inclinazione dei raggi solari. Risultato, un’esplosione immaginativa che nemmeno nei sogni più follemente erotici. Ma lì, era la quotidianità.
E va da sé in tutto questo: nessuna attività sessuale di nessun tipo. Figuriamoci. Anzi, ti raccomandano “nessuna attività sessuale per almeno due settimane dopo la fine del corso”. E come no. Comunque i divieti legati al sesso non sono così diversi da quelli della maggior parte delle comunità religiose, cattolici compresi come ben sappiamo. E più in generale il ritmo di vita al Vipassana è simile a quello di un monastero, con sveglia a suon di campanacci alle 5 e luci spente alle 21:30, solo che qui invece di pregare c’è la meditazione; e si tratta di una meditazione che è specificamente Vipassana, diversa da quella zen che avevo provato in Giappone, molto diversa da quella delle comunità buddhiste in Italia, e totalmente diversa da tutte le altre in cui mi ero variamente imbattuto finora. E se parlare del Vipassana è inutile, parlare della sua pratica fondamentale è ovviamente ancora più sommamente inutile; posso dire solo che tutti quei divieti, tutte le privazioni, tutto il mio assurdo viaggio a Bucharest e poi le otto ore di delirante treno notturno per la Transilvania e i due autobus per arrivare in questo posto in mezzo ai Carpazi, beh, è durante la meditazione che tutto questo ha – abbastanza improvvisamente e inaspettatamente – acquisito un senso.
Però questo senso ha preso forma dopo alcuni, interminabili, difficilissimi giorni di smarrimento completo. Perché va beh, il venerdì arrivi, c’è molto movimento, un sacco di gente, ti sistemi sopra una lastra di legno (chiamata “letto”) in una camerata di sei persone, e insomma ti senti ancora il solito italiano in vacanza in cerca di emozioni strane. Il sabato sei ancora il solito idiota di sempre, però si inizia intanto a meditare - e per la precisione, ti fai NOVE ore di meditazione dall’alba al tramonto, e intanto, tra una cosa e l’altra, noti che due dei tuoi compagni di camera hanno lasciato il letto vuoto. Sì insomma, hanno già fatto i bagagli e se ne sono andati.
Ma puoi sempre ripeterti: tutto bene Massi, tranquillo, tu hai fatto tutto questo viaggio, in fondo siamo qui per divertirci no? Siamo ancora in quattro su sei.
Poi però arriva la domenica, e siamo rimasti in DUE. E mancano ancora sette dannatissimi giorni, praticamente abbiamo appena iniziato. E siamo rimasti solo io e il mio (a questo punto) unico compagno di camera, che ora sono terrorizzato di veder andare via come gli altri. E intanto le ginocchia fanno così dannatamente male che mi sembrano sul punto di spezzarsi da un momento all’altro. E poi...
E poi, in qualche modo siamo andati avanti, fino alla fine. E tutte quelle frasi motivazionali che si scrivono sui calendari, sui libri, sui social, che si ripetono sempre quando si vuole dire qualcosa di motivazionale – sull’arte di soffrire, di morire, di vivere – smettono di essere “frasi”, fatte dei nostri astratti segni chiamati “parole”, e diventano carne e ossa e sangue. La testa si libera dai dettagli, ed è così... VUOTA, che è come avere rimesso in ordine la cameretta di quando eri adolescente. E anche la felicità smette di essere una parola, e inizia a camminare con te.
Buona domenica.