Vestitevi comodi - la Contact
Due uomini si danno la schiena, in piedi su un tappeto a blocchi componibili che copre l’intera palestra. Uno ha sui 25 anni, la maglietta sbrindellata e i pantaloni nepalesi tipo quelli che si comprano in Montagnola. L’altro è più grande, calvo con la barba lunga, somiglia un po’ a Lucio Dalla. Al momento sta strisciando le sue spalle sulla schiena del partner, come se volesse spazzolarla lentamente, o disegnarci qualcosa sopra. Con un’improvvisa accelerazione, il giovane gli scivola di lato e i due si ritrovano fronte contro fronte, ma ancora senza guardarsi, e senza mai smettere di essere in movimento: a tratti appena percettibile, a momenti invece vorticoso come ora che i due si mettono ad avvitarsi l’uno contro l’altro utilizzando le proprie teste come perno; nel frattempo il vecchio cambia gradualmente la sua inclinazione piegando le ginocchia, fino a che si ritrova a quattro zampe con il giovane comodamente seduto sopra la sua schiena, le gambe e le braccia a ciondolare senza fretta. Fra qualche secondo si ritroverà a volteggiare in aria, e ad essere abbracciato al volo dal partner appena prima di cadere a terra. In tutto questo, fino alla fine, i due uomini non sentiranno mai il bisogno di guardarsi negli occhi; anzi, per buona parte della performance li terranno chiusi. E non è detto che questa performance debba essere guardata da qualcuno, infatti, ci sono molte altre coppie in sala a fare la stessa cosa: che è una danza, certamente, ma a vederla ricorda anche un’arte marziale o la capoeira; ed è allo stesso tempo una forma di improvvisazione, una terapia volta a esplorare con il corpo le possibilità della comunicazione nonviolenta; un’attività divertente ma rivolta soprattutto a persone che vogliono lavorare su di sé; e infine, è la pratica alla base di una comunità diffusa più o meno in ogni città del mondo.
A me è capitato di farla ad Arezzo come a New York, ma ho scoperto questa danza contact - o contact improvisation, o semplicemente “la” contact – nel 2015 a Bologna. Una volta al mese organizzavano un evento al TPO di via Casarini, che durava qualcosa come 3 ore, costava 3 euro e si chiamava “jam”. Sì, proprio come nell’improvvisazione musicale dei jazzisti, perché il concetto è esattamente quello: gli esecutori si ascoltano tra loro, si avvicinano, iniziano a interagire, e a un certo punto si distaccano, restando liberi di formare in ogni momento una nuova temporanea coppia, o anche danzare da soli, “insieme” al pavimento, o in piccoli gruppi. La jam è il complesso di tutte queste interazioni improvvisate. Nelle quali comunque non c’è seduzione, o almeno, non ci dovrebbe essere, perché sarebbe in qualche modo una distrazione dall’atto in sé (privo di fini); e inoltre la seduzione implica una certa fissazione della coppia, mentre l’idea della contact è propedeutica a un’organizzazione sociale di tipo comunitario.
Del resto anche quando due o più jazzisti suonano insieme si usa spesso la metafora: stanno facendo l’amore, e in un certo senso è vero ma ovviamente si tratta di amore sublimato in altra forma rispetto a quella tradizionale. Nella contact questa sublimazione avviene peraltro tramite il contatto dei corpi, cioè lo stesso canale dell’amore fisico, quindi il gioco è decisamente molto sottile e ci vuole un’etica specifica, una scelta consapevole di separare questi due campi; altrimenti sarebbe piuttosto una specie di orgia e attirerebbe gente di altro tipo. Se ci pensiamo poi, i nostri contatti fisici primordiali non sono di tipo erotico: il primo in assoluto è con nostra madre, poi vengono il papà, i parenti, gli amichetti piccoli. La contact è, credo, anche il recupero di questa dimensione corporale-non-sessuale infantile che nella vita adulta abbiamo più o meno tutti dimenticato: dunque, un’esplorazione di archetipi volta a capire meglio i confini della seduzione senza mai entrarci dentro. Qui siamo all’opposto di ciò che normalmente si intende per danza di coppia; e in particolare rispetto per esempio al tango, in cui i ruoli della coppia sono rigidamente separati fra maschile e femminile: nella contact, non c’è alcuna differenza di genere. Esplori l’altro, o l’altra, impari a fidarti dell’altro, o dell’altra, impari anche a gestire le aspettative, i malintesi, i rifiuti, a trovare la giusta distanza. Soprattutto impari a cadere senza farti male, senza fermarti, e continuare la danza qualunque cosa succeda; insomma, tutto quello che fa parte della nostra competenza sociale, lo esplori con il corpo.
E gli occhi, in tutto ciò, non servono veramente. Per questo ci si guarda poco. Il verbo chiave è ancora mutuato dalla musica: ascoltare. Non stiamo “toccando” - termine legato a un approccio unidirezionale, possessivo – stiamo appunto ascoltando l’altro, attraverso i suoi movimenti, la pelle, le ossa, il peso, il baricentro. A ogni proposta c’è una risposta che è al contempo una proposta ulteriore, e così via (ancora una volta in analogia con il jazz, ma a dire il vero anche con ogni altra forma di improvvisazione). Anche qui c’è chi guida e chi viene guidato, come nel tango, ma i ruoli sono fluidi, non dichiarati, e continuamente in movimento come tutto il resto.
Prima del 2015 la concezione che avevo di me stesso stava dalle parti di Rita Levi Montalcini - “il corpo faccia quello che vuole, io sono la mente” - ed è curioso che oggi, dopo una serie di percorsi il cui inizio risale forse proprio a quella prima jam, potrei quasi prendere la stessa frase e farle fare una bella capriola a testa in giù: la mente faccia quello che vuole, io sono il corpo.
Altrettanto estrema, si direbbe. Alla fine però tutto si mette a posto, se accettiamo l’ovvio dato di fatto che la mente È una parte del corpo, sta fisicamente, letteralmente lì dentro, quindi perché mai dovrebbero cercare di dominarsi a vicenda?
Buona domenica.